Era il 10 giugno 1708 e nel Mar dei Caraibi – più precisamente a circa 30 chilometri dalle coste di Cartagena de Indias, in Colombia – un galeone della Marina britannica si immerse negli abissi insieme al suo tesoro preziosissimo, fatto di argento e smeraldi e circa 11 milioni di dobloni d’oro, del valore attuale di almeno 20 miliardi di dollari.
Negli ultimi tre secoli in questa aerea si sono aggirati (e continuano a farlo) archeologi, ricercatori e contrabbandieri per cercare di recuperare questo straordinario patrimonio, così tanto di valore che gli esperti lo definiscono persino il “Santo Graal dei naufragi“.
La storia del San José
Molti di voi hanno forse intuito che stiamo parlando del San José, leggendario galeone costruito nel 1696, che all’epoca pesava ben 1066 tonnellate. Un’imbarcazione mastodontica, al punto da avere in dotazione 46 cannoni calibro 16, 8 cannoni di bronzo calibro 10 e 8 “sacres” calibro 7.
Durante la primavera del 1708, in piena guerra di successione spagnola, il capitano britannico Charles Wager era al comando di quattro navi che solcavano il Mar dei Caraibi: l’HMS Expedition, la Kingston, Portland e la Vulture. In aprile la flotta attraccò nella piccola isola di Pequeña Barú (nell’arcipelago delle Isole Rosario), a 30 miglia da Cartagena, per fare rifornimenti.
Fu così che il governatore di Cartagena decise di informare gli spagnoli sulla presenza della flotta britannica ma, nonostante l’avvertimento, il comandante della San José, José Fernández de Santillán, decise di avventurarsi in mare il 28 maggio, sia per timore della vicina stagione degli uragani, sia perché l’ammiraglio francese Jean-Baptiste du Casse – che li attendeva all’Havana per scortarli – minacciava di andarsene senza di loro.
Il 10 giugno le quattro navi da guerra britanniche attaccarono il San José per quasi 10 ore, un’azione che portò alla morte di 578 persone, tra marinai, soldati, personale dell’equipaggio e passeggeri. Undici furono i sopravvissuti, mentre le identità accertate delle vittime solo 105. Stando ai documenti dell’epoca, insieme al San José e ai tanti corpi umani affondò anche un carico di 344 tonnellate di monete d’oro e argento e 116 scatole di smeraldi.
La scoperta
La scoperta del relitto del San José è avvenuta solo il 5 dicembre 2015, giorno in cui il presidente colombiano rese noto che i resti del galeone erano stati individuati a circa 100 chilometri dalla costa, annunciando anche la nascita di un museo dedicato al galeone.
La ricerca della nave era iniziata nel 1981 da parte di una società di recupero statunitense, che ha poi dato il via a una disputa legale contro il governo della Colombia terminata nel 2011, quando una corte statunitense ha dichiarato che i resti del galeone sono di proprietà del governo colombiano.
Il suo ritrovamento risulta essere uno dei più importanti del patrimonio sommerso, probabilmente di tutti i tempi. E con lo scopo di proteggere il suo tesoro da eventuali saccheggiatori, il governo colombiano ha deciso di mantenere il segreto assoluto sulla questione e anche sulla sua posizione specifica.
Tuttavia, sui giornali locali si può leggere che il ministro della Cultura colombiano ha annunciato che avrà presto luogo una spedizione con un sottomarino per recuperare una serie di oggetti “di inestimabile valore” dal relitto del galeone.
Come dovrebbe avvenire il recupero
Stando a quanto si può leggere sui quotidiani colombiani, la missione sarà effettuata con un sottomarino a guida autonoma tra aprile e maggio di quest’anno. L’operazione richiederà l’investimento di 4,5 milioni di dollari e il sottomarino opererà a una profondità di 600 metri.
Come è possibile immaginare, saranno adottate tutte le accortezze del caso per evitare il danneggiamento dello scheletro del galeone, in modo da preservare il suo valore archeologico.
Non mancano però le polemiche: oltre alla società americana che sostiene di aver trovato il relitto per la prima volta oltre 40 anni fa – che pretende la metà del valore del tesoro -, a voler mettere le mani sul patrimonio del relitto sono anche la Spagna, che rivendica che sia il suo in quanto nave di stato, e un gruppo indigeno della Bolivia, i Qhara Qhara, che sono certi che il carico è il loro perché furono i loro antenati a estrarlo da quella che, nel 1500, era la più grande miniera d’argento del mondo.