“In un luogo spoglio anche solo un elemento scenografico scelto con cura emerge in forma profonda, e la location non diventa uno spazio mimetico semplicemente della realtà“. Sergio Scavio, regista di La Guerra di Cesare – al cinema dal 22 maggio 2025 – ci ha raccontato la sua favola sociale sul tema del lavoro ambientata in una Sardegna mineraria che custodisce tante storie che vale la pena far conoscere anche fuori dall’isola.
Fabrizio Ferracane, Alessandro Gazale e Luciano Curreli sono protagonisti di un dramma umano e politico, asciutto e profondo, che esplora il fallimento individuale e collettivo in un’Italia periferica dimenticata. Un’opera prima matura che racconta il vuoto lasciato dalle promesse mancate del progresso, trasformando un atto di vendetta in un percorso umano di riscoperta e redenzione.
In un paese minerario in declino, Cesare e Mauro, ex minatori e amici da sempre, lavorano come guardie giurate in una miniera dismessa. Sperano in un rilancio da parte di un’azienda cinese, ma la trattativa si interrompe bruscamente e i dirigenti abbandonano l’isola. La miniera chiude per sempre.
Mauro, disperato, tenta un gesto estremo e muore in un incendio accidentale. La sua morte scuote profondamente Cesare, che si ritrova senza lavoro, con un matrimonio fallito e una vita alla deriva. Decide allora di partire con Francesco, il fratello instabile di Mauro, per raggiungere la sede dell’azienda e vendicare l’amico. Ma in città, tra incontri e nuove esperienze, Cesare inizia a mettere in dubbio le sue certezze e il suo desiderio di vendetta.

Che ruolo ha il territorio in questo film? Mi è sembrato che la storia nasca in un certo senso proprio dal luogo in cui è ambientata.
Sì, esattamente. Il film nasce da un territorio molto consueto in Sardegna, un ambiente di archeologia che fino a pochi anni fa era un ambiente di lavoro. Noi per ragioni produttive abbiamo girato solo in alcuni luoghi della miniera, ma la Sardegna è puntellata di spazi di estrazione e luoghi di lavoro. Idealmente quello rappresentato è il territorio del Sulcis, a Sud della Sardegna, dove nel periodo del fascismo fu fondata Carbonia. Intorno alla miniera praticamente è nato un paese e c’è un ambiente molto suggestivo.
Tuttavia abbiamo girato anche nei siti estrattivi che sono sulla costa tra Alghero e Stintino, in particolare il borgo dell’Argentiera che ha ospitato le riprese, ma è anche fonte di ispirazione del film stesso. Spostandosi sulla costa si incontra Porto Flavia, Bugerru, che sono posti bellissimi dal punto di vista paesaggistico ma anche luoghi di importanza storica. Basti pensare che il primo sciopero italiano fu proprio a Buggerru fuori dalla miniera di quella zona. Il racconto nasce proprio da questa grande trasformazione dei territori.
Ci sono state delle difficoltà durante le riprese? Come è stato il rapporto con la Sardegna Film Commission?
Il rapporto con la Sardegna Film Commission è stato ottimo, ci hanno supportato per tutte le riprese che però sono state fatte in due miniere diverse, una all’Argentiera che è un posto magnifico che io amo ed è comune di Sassari nonostante sia a 5 km dalla città; è un luogo turistico ma anche molto popolare, ci vanno le famiglie delle borgate lì attorno e si crea questa commistione tra il turista che si gusta una spiaggia magnifica e gli abitanti del territorio. Abbiamo girato sulla spiaggia, nel borgo e la parte più mineraria in una frazione che si chiama Canaglia dove c’è una vecchia miniera in disuso da circa 40 anni. L’Argentiera è più suggestiva perchè ci sono miniere più antiche, anche di inizio secolo.

La spiaggia che si vede quindi anche nella scena finale al tramonto è questa?
Sì all’Argentiera, dove il tramonto sul mare è magico.
Quanto è importante per te ambientare un film in dei luoghi familiari, legati alla tua storia personale?
Decisivo. Fare il primo film giocando in casa mi ha rassicurato molto. Ho scelto personalmente tutti gli ambienti del film e non è una cosa scontata, spesso è un lavoro di squadra. Ho preferito andare in posti che ricordano passaggi di vita, come la città di Sassari dove abbiamo simulato il paese, in particolare in un quartiere che si chiama Monte Rosello dove c’è un’edilizia molto popolare legata all’attività dei ferrovieri perchè è vicino alla ferrovia ed è una realtà molto simile a quella dei borghi minerari. Abbiamo girato lì e per me è significato molto perchè lì è nata la mia famiglia e tornare su quelle vie è stato emozionante.
E quella scena in città dove i due personaggi raggiungono la casa di Cossiga, dove è ambientata?
Sì quella è Piazza d’Italia, la più importante della città di Sassari. Gli esterni sono gli stessi del palazzo in cui abbiamo girato anche gli interni della casa di Cossiga. Un piccolo aneddoto è che la casa in cui sono andato a vivere ospitava una parte della famiglia di Cossiga senza saperlo, quindi l’idea è nata da questa casualità. Cossiga è di Sassari quindi ha vissuto a lungo in città e ha mantenuto tutta la famiglia lì. Piazza d’Italia è un ettaro ed è una delle più grandi d’Italia, apre la città a nuovi spazi passando dal centro storico che invece è caratterizzato da viuzze strette che ricordano molto il centro storico di Napoli o Palermo dove abbiamo girato alcune scene.

Durante le riprese del film in questi luoghi come è stato l’umore dei locali?
Sono stati contenti perchè Sassari non ha ospitato molti film e quindi c’è sempre quel pizzico di curiosità ed entusiasmo. Poi ho coinvolto anche molti attori non professionisti che hanno fatto parte della mia vita e li ho coinvolti. Il cugino di Cossiga per esempio è interpretato dal professore di storia contemporanea dell’università di Sassari, molto autorevole. C’è molto il racconto della città e in quegli stessi luoghi avevo già girato dei cortometraggi, quindi abbiamo ricostruito i set dentro i circoli del centro storico. Le porte si sono aperte anche perchè il sassarese è un sardo un po’ atipico, è chiacchierone, più vicino a un uomo del sud canonico rispetto al sardo più silenzioso e austero che si conosce normalmente.
Ho letto che in un’intervista hai detto che facendo questo film hai pensato al mondo agropastorale iscritto nel DNA delle persone che abitano quei luoghi. Hai avuto paura di fare un film troppo ancorato al territorio, che facesse poi fatica ad arrivare all’esterno o pensi si tratti di una storia universale?
Questo film un po’ si stacca da quell’immaginario lì perchè racconta uno scenario di una nuova identità produttiva che la Sardegna ha tentato di darsi nel 900, perchè è vero che spesso ci raccontano come una società di pastori, ma la Sardegna nel 900 ha tagliato la relazione con quel mondo che esisteva da Omero e ha tentato sfortunatamente un’identità petrolifera, mineraria. Sono andate tutte male e ora di cosa vivrà? Questa è una domanda ancora aperta e il film racconta lo smarrimento di questo percorso. La mia idea era quella di riattualizzare la crisi che alcuni autori avevano quando stava nascendo il boom economico però si intravedevano i primi segni di crepa.
Hai delle influenze come regista? Autori che ti piacciono particolarmente?
Dico sempre che essere uno spettatore costante e appassionato mi ha portato a fare il mio lavoro. Per casualità di recente sono andato a rivedere al cinema un film di Kaurismaki, L’uomo senza passato e ho ritrovato tantissime cose di La Guerra di Cesare che non ricordavo perché lo avevo visto molti anni fa e questo mi ha fatto rendere conto che c’è una semina nascosta dei film dentro le persone che germogliano in modi inaspettati e misteriosi. Quindi Kaurismaki, Jarmush, Bresson, Buster Keaton, registi della semplicità. In futuro vorrei fare film ancora più semplici.

A proposito della semplicità io ho percepito questa scelta di ambientare il film perlopiù in luoghi desolati, decadenti, per far emergere più i personaggi e le relazioni?
Sì, esatto ma diventa anche simbolo. In un posto spoglio anche solo un elemento scenografico scelto con efficacia emerge in forma profonda e non diventa uno spazio mimetico semplicemente della realtà in cui viviamo. Io non voglio imitare la realtà ma esaltarla e riscriverla e questo puoi farlo solo lavorandoci sopra.
Come è stata l’accoglienza del film al festival di Bari dove è stato presentato in anteprima e cosa ti aspetti dall’uscita in sala?
A Bari è stata una grande emozione perchè per la prima volta vedevo un film in sala con degli estranei ed erano tanti, un teatro di quasi 400 posti pieno. Le sale parlano e vibrano senza dire nulla e l’accoglienza è stata ottima, abbiamo vinto il premio come miglior attore, un’esperienza eccezionale. L’uscita in sala è un’avventura perchè un film così piccolo deve sgomitare tra Mission Impossible e altri grandi titoli, mi auguro che si apra un dialogo con il pubblico, che ci ci possa confrontare. Diverse sale in tutta Italia ci sono e sono molto contento. Sarebbe bello che questi film sostenuti dalle istituzioni non vengano costretti dentro il mercato, ma lotteremo.