C’è una città, in Perù, che è molto più che una città fantasma. È un luogo immobile, quasi sinistro. Un luogo in cui il tempo si è fermato, e la storia è senza lieto fine.
È la città di Yungay, 15 chilometri più lontano rispetto alle cime innevate della Cordillera delle Ande. Qui, il 31 maggio del 1970, si abbattè un terremoto devastante: 7.5 gradi sulla scala Richter, con epicentro nell’Oceano Pacifico e una forza devastante. Dal monte Huascaran si staccò una enorme valanga di ghiaccio e di roccia, che travolse Yungay e tutti (o quasi) i suoi abitanti.
Successe, la tragedia, alle 15.25. La gente era in casa, o nei locali, impegnata a guardare i Mondiali di Calcio. E non ebbe scampo. La valanga travolse un’area gigantesca, 83 mila chilometri quadrati, e portò con sé case, strade e vite. Morirono quasi tutti gli abitanti, e sopravvissero solo le poche persone (non più di 300) che riuscirono a raggiungere i gradini del cimitero che tutt’ora guarda dall’alto la città.
Quel giorno il terremoto fece 74 mila vittime, e 25 mila sono ancora ufficialmente disperse. Oggi, l’intero territorio che un tempo era la città di Yungay è un enorme cimitero. E non è certo una meta turistica: persino i backpackers è difficile che decidano di visitarla.
Le informazioni su questa città dalla storia così tragica sono poche, e le indicazioni ancora meno. Se la si raggiunge, però, ci si porta a casa un po’ della sua storia. La storia d’una vecchia città di cui rimangono solo quattro palme e l’antico cimitero. Per il resto, solo tombe e croci immerse nella vegetazione.
A dispetto delle rovine che raccontano quel disastro naturale – il peggiore che il Sud America abbia mai vissuto – Yungay è, ora, un luogo di pace. Un luogo su cui veglia il cimitero, con la statua del Cristo costruita sul finire dell’Ottocento dall’architetto svizzero Arnold Ruska, e su cui si erge – solitario – un memoriale. Ecco perché, chi ha tra le tappe del suo viaggio in Perù la Cordillera delle Ande, dovrebbe allungare sino a qui: per portare con sè un pezzetto di storia, per respirarla, e per ricordare quanto devastante la natura sa essere.