In Egitto c’è un tempio, spesso sottovalutato, da vedere

Nella piana di Giza, oltre alle tre piramidi e alla famosa Sfinge, c'è un altro luogo da non perdere

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Ilaria Santi

Giornalista & Travel Expert

Giornalista, viaggia fin da quando era bambina e parla correntemente inglese e francese. Curiosa, autonoma e intraprendente, odia la routine e fare la valigia.

La piana di Giza, in Egitto, è il luogo più visitato del Paese. Qui ci sono le tre piramidi più famose del mondo: Cheope, Chefren e Micerino. Ma c’è anche la famosa Sfinge, il leone dalla testa umana. I turisti sono attratti da questi antichissimi monumenti e arrivano da ogni parte del Pianeta pur di visitarli.

C’è un altro edificio che viene spesso tralasciato e che, al contrario, merita assolutamente di essere visitato. Si tratta del Tempio della Valle di Chefren che si trova a qualche centinaio di metri di distanza dalla piramide.

Il Tempio della Valle di Chefren

Questo faraone, figlio di Cheope e padre di Micerino, appartenuto alla IV dinastia egizia e vissuto, quindi, 2500 anni prima di Cristo, volle superare la grandezza del padre e non si accontentò di farsi erigere una piramide (oggi riconoscibile per la punta più chiara), volle anche la costruzione della Sfinge a sua immagine e somiglianza a guardia della sua piramide e un tempio funerario a valle.

Il Tempio della Valle era rimasto sepolto sotto la sabbia del deserto per centinaia di anni e fu riportato alla luce grazie a una spedizione archeologica organizzata da studiosi egiziani, francesi e tedeschi. I lavori si protrassero a lungo agli inizi del Novecento.

Si è scoperto che c’erano due ingressi sul lato orientale, uno a destra in direzione Nord e l’altro a sinistra in direzione Sud. Quando il faraone fu mummificato e preparato per la sepoltura, tutte le cerimonie rituali si svolsero due volte, la prima a simboleggiare il suo dominio sul Basso Egitto e la seconda a ricordo del suo dominio sull’Alto Egitto.

A cosa serviva il tempio

Il tempio era stato costruito, infatti, proprio per la cerimonia di imbalsamazione. Nel laboratorio sacro che era stato ricavato all’interno del tempio veniva praticata la cerimonia di apertura della bocca al termine del lungo processo di imbalsamazione del faraone.

Durante questo rituale, i sacerdoti aprivano gli occhi e la bocca del re utilizzando strumenti d’oro, per permettere al ka (lo spirito) del faraone di uscire dalla salma e per garantirgli vita eterna.

Originariamente, era collegato al tempio funerario di Chefren tramite una rampa lunga 494 metri e misurava 45 metri per lato e 13 d’altezza interamente realizzato con blocchi di granito rosso di Assuan, privi di decorazioni a eccezione di alcune iscrizioni in caratteri geroglifici incise intorno ai varchi di accesso.

All’interno, c’era una grande sala a forma di “T” rovesciata, con 16 pilastri di granito rosso alti circa 4 metri che sorreggono le imponenti architravi. Dovevano creare uno spettacolare contrasto cromatico con le pareti di calcare rivestite con lastre di granito nero, oggi parzialmente scomparse, e con la pavimentazione fatta di alabastro. Nella sala, si trovavano in origine 23 statue del sovrano seduto, tutte in diorite verde del deserto nubiano, alabastro e grovacca.

Dal centro del tempio, dove avvenivano i rituali funebri, si accedeva ad altre camere, corridoi angusti, vestiboli, atrii e a ulteriori ambienti per contenere le barche solari che, per gli Egizi, erano imbarcazioni concepite per trasportare i faraoni defunti nell’Aldilà.

La scoperta che ha riscritto la storia

Si tratta dell’unico tempio a valle che si sia conservato e che è pervenuto fino ai giorni nostri in buono stato di conservazione, nonostante, come la maggior parte dei siti archeologici, fosse stato violato fin dall’antichità. I primi blocchi di pietra furono asportati già nell’antico Egitto e così fu nei secoli successivi, tanto che non soltanto il tempio ma la stessa piramide di Chefren non era neppure più riconoscibile.

Era l’inizio del 1800, quando l’esploratore padovano Giovanni Battista Belzoni notò un enorme ammasso di pietre. Dopo averle rimosse, trovò prima un cunicolo inaccessibile, scavato molto probabilmente dai tombaroli, e poi tre grandi blocchi che costituivano l’ingresso principale della piramide. All’interno, a futura memoria, Belzoni lasciò scritto a caratteri cubitali: “Scoperta da G. Belzoni. 2 marzo 1818”. Fu però l’egittologo britannico John Shae Perring a entrare nella piramide di Cheope nel 1837 e, quasi un secolo dopo, il team internazionale riuscì ad accedere anche al tempio.