Imparare a vivere di resilienza come in Islanda

Il popolo di quest’isola dalla natura primordiale ha imparato a vivere nello stile “þetta reddast", “va tutto bene”

Pubblicato: 7 Maggio 2020 16:07

Ilaria Santi

Giornalista & reporter di viaggio

Giornalista, viaggia fin da quando era bambina e parla correntemente inglese e francese. Curiosa, autonoma e intraprendente, odia la routine e fare la valigia.

Per secoli gli islandesi hanno convissuto con condizioni climatiche estreme, eruzioni vulcaniche, povertà. Il popolo di quest’isola dalla natura primordiale ha imparato a vivere nello stile “þetta reddast” che potremmo tradurre con il nostro “va tutto bene”, una sorta di resilienza che dimostra come, talvolta, sia meglio accettare positivamente ciò che accade e guardare avanti.

Descrive molto bene questo atteggiamento Katie Hammel, giornalista di BBC Travel, in un suo articolo in cui racconta che, a fine estate 2019, si è trovata con il camper in panne in una delle zone meno turistiche dell’Islanda, quella di Westfjords, nella punta nordoccidentale dell’isola dove, anche d’estate, periodo di massima affluenza turistica, arriva al massimo il 6% dei visitatori. Avvertita la società di noleggio, la risposta è stata “þetta reddast”. Il meccanico per riparare il guasto non sarebbe arrivato fin laggiù prima del loro ritorno in patria.

Questa frase è un po’ lo slogan in Islanda, racconta la Hammel, e veniva usata prima ancora della pandemia di Coronavirus. Rispecchia esattamente il modo di approcciare la vita degli abitanti, che hanno un atteggiamento “easy” nonché un grande senso dell’umorismo.

Eppure non ci aspetterebbe un comportamento positivo da una popolazione che, almeno fino a XX secolo, ne ha subite di tutti i colori. Solo nel 1783, l’eruzione del vulcano Laki si è portata via il 20% della popolazione che allora contava solamente 50mila persone insieme all’80% delle pecore che costituivano una fonte alimentare vitale per il Paese che, ancora oggi, scarseggia in agricoltura.

Poi ci sono state le tempeste e le mareggiate, che hanno distrutto le barche dei pescatori, altra fonte di sussistenza per gli islandesi, insieme a molti uomini e addirittura a interi villaggi di pescatori. E fino agli inizi del XVIII secolo, morivano molti bambini, il 30% prima ancora di aver compiuto un anno di età. L’Islanda per una popolazione prettamente anziana era quindi un luogo difficile in cui vivere. Solo un secolo fa la gente viveva ancora nelle case fatte di torba. Ora, specie nella Capitale Reykjavik, si trovano condomini ultramoderni di vetro e acciaio.

Quella che conosciamo oggi, quindi, è un’Islanda diversa, con molte più comodità di un tempo, molto più moderna, dove c’è elettricità geotermica, si trova il wi-fi e le carte di credito sono accettate ovunque. Ma la natura, qui, ha ancora oggi spesso la meglio sull’uomo. Cinquant’anni fa il vulcano Eldfell esplose sull’isola di Heimaey, spargendo milioni di tonnellate di cenere su 400 edifici provocando l’evacuazione di 5mila persone. Poco più di 25 anni fa, una gigantesca valanga decimò la cittadina di Flateyri nei Westfjords, seppellendo una dozzina di abitazioni e uccidendo un decimo degli abitanti. È recentissima, infine, l’eruzione del vulcano Eyjafjöll, che nell’aprile del2010 paralizzò per diversi giorni il traffico aereo mondiale.

Anche nei giorni in cui non avvengono veri e propri disastri, l’Islanda deve fare i conti con scosse di terremoto (circa 500 ogni settimana), gorgoglii che provengono dal sottosuolo, geyser e fumarole, cascate scroscianti e ribollimenti vari. Del resto, l’isola poggia su due placche terrestri che si allontanano ogni anno di 3 centimetri e il terreno è in costante movimento.

La resilienza per gli islandesi è uno status, essendo loro benissimo capaci di far fronte in maniera positiva a tutti gli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la loro vita. Nessuno potrebbe vivere in queste condizioni se non pensasse che va tutto bene: “þetta reddast”, appunto.

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