La leggendaria città dei pirati: Port Royal in Giamaica

Fu definita la città più ricca e malfamata al mondo

Migliaia di grotte sotterranee, spiagge protette dalle barriere coralline, foreste pluviali, labirinti di mangrovie e cascate. E monete e lingotti d’oro, piatti e candelabri d’argento, pietre preziose, anelli, collane e diademi. In poche parole l bottino dei pirati che in Giamaica avevano stabilito la loro base a Port Royal.

Gente come Sir Henry Morgan, Barbanera, Calico Jack e gli altri bucanieri, che lavoravano ora per la Francia ora per l’Inghilterra saccheggiando i mercantili spagnoli, venivano qui, dopo mesi trascorsi in mare a spendere i loro soldi, in prostitute dai nomi improbabili e alcol, arricchendo i proprietari delle locande, che iniziarono a costruire case su case facendo ancora più soldi. Per buona parte del XVII secolo Port Royal fu la città più ricca e viziosa dei Caraibi fino a quando a mezzogiorno del 7 giugno 1962 un terremoto non la fece sprofondare nel mare. L’acqua si prese tutto, compresa la tomba di Henry Morgan. Il Capitano, che si era ritirato qui e viveva grazie alle sue piantagioni, era morto pochi anni prima di turbercolosi (il 25 agosto del 1688).

Ma la città dei pirati non è andata perduta
. Un testimone raccontò: “La terra in strada salì come le onde del mare, sollevando le persone e ributtandole giù. Nello stesso istante arrivò l’acqua, sommergendo ogni cosa sul proprio cammino. Qualcuno tentò di tenersi alle travi delle case, altri furono trovati nella sabbia, dopo che l’acqua in parte di ritirò, con fuori solo le braccia o le gambe“. È stato stimato che circa 2mila persone morirono subito, altre 3mila in seguito, per le ferite e le malattie. Due anni fa un’esposizione (in parte è ancora al Fort Charles Museum) ha proposto al pubblico mappe, disegni, ricostruzioni e circa 150 manufatti rinvenuti grazie agli studi e agli scavi archeologici condotti sistematicamente a partire dal 1981 dal Nautical Archaeology Program of Texas A&M University (in cooperazione con l’Institute of Nautical Archaeology and the Jamaica National Heritage Trust): brocche e pipe in argento, pettini e copertine di libri in tartaruga, porcellane cinesi e calici in vetro, solo per citarne alcuni.

Oggi sappiamo che dei 60 acri su cui si sviluppava la città solo 25 furono risparmiati. La zona del porto fu completamente distrutta, un’altra sprofondò verticalmente: gli edifici in legno e i pozzi in pietra anziché crollare scivolarono sul fondo del mare, ripiegandosi su stessi e proteggendo a guscio quanto si trovava all’interno. Nel 1680 c’erano approssimativamente un migliaio di case a due o tre piani, con balconi, tetti spioventi e il piano terra usato come negozio. Sembrava di essere a Londra, si leggeva nelle cronache, con tanto di chiese (quella di S. Peter c’è ancora) e sinagoghe. Dietro l’elegante e rispettabile facciata la vita che si svolgeva nelle taverne dove si beveva, si mangiava, si fumava e si regolavano i conti nelle risse – non faceva che darle la fama di Sodoma dei Caraibi.

Dopo che l’ira di Dio, pensarono, si fu abbattuta, i sopravvissuti si stabilirono a Kingston ma non abbandonarono del tutto Port Royal. Dal 1700 alla fine delle guerre napoleoniche nel 1815 divenne la base strategica da cui la Gran Bretagna sferrava gli attacchi alle navi francesi e spagnole sotto il comando dei nomi più altisonanti della sua marina (qui fu stanziato un giovanissimo Horatio Nelson), nonché un centro di smistamento degli schiavi in arrivo dalla Nigeria per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Quando fu chiusa nel 1905 i suoi abitanti cercarono nuove occupazioni, pescando e commerciando, o si trasferirono a Kingston, oggi cuore finanziario, politico e commerciale di un Paese che vanta un caleidoscopio di genti: colonizzatori ebrei, commercianti arabi, schiavi africani, immigrati indiani e cinesi. Out of many, one people (da tante genti un solo popolo) dicono.

Musei (tra cui quello dedicato a Bob Marley), teatri, gallerie d’arte (alla National Gallery sono esposte le opere dei principali artisti giamaicani), hotel lussuosi e modeste pensioni, chioschi e locali dove fermarsi per mangiare zuppe e pesce fritto o tirare tardi bevendo Tia Maria e rhum, ascoltando la musica reggae mentre le luci delle case punteggiano i pendii verso le maestose Blue Mountains. Dalla storica downtown alla moderna uptown non manca nulla: la lussuosa Devon House costruita dal primo miliardario nero dei Caraibi, palazzi, case coloniali, giardini lussureggianti (imperdibile il Castleton Botanical Gardens), spiagge che si stagliano sul turchese del mare, l’azzurro del cielo e l’ombra di candide e soffici nuvole. Tappa obbligata è la Spanish Town Square nella vicina Spanish Town. Per 180 anni è stata la sede politica del Paese, nonché residenza del governatore: vide la condanna a morte del pirata Calico Jack (quello che vantava l’ingaggio delle due piratesse Anne Bonny e Mary Read), la testa di Three Fingers Jack, su cui era stata messa una taglia e nel 1838 il proclama dell’abolizione della schiavitù.

Lo scorso anno il governo ha deciso di stanziare 72 milioni di dollari per valorizzare Fort Charles e Port Royal, le zone con il maggior potenziale turistico, dall’inclemenza della natura ma ancora nulla è stato fatto. Dopo il terremoto del 1869 nel 1951 è stata la volta dell’uragano Charlie. Gli abitanti hanno ricostruito le case di legno abbattute e l’Araba Fenice è rinata ma nel 2004 è stato Ivan a mettere a dura prova la striscia di terra che lega Port Royal alla terraferma chiudendo il porto di Kingston. La Palisadoes, lunga 14 chilometri, larga qua e là poco più dei 50 metri della strada che la percorre, prima dell’uragano era protetta da dune di sabbia alte circa due metri. Oggi alcuni punti sono in uno stato precario: un minaccia in più per un’area popolata da delfini, cavallucci marini, tartarughe verdi, lamantini dei Caraibi e coccodrilli americani. La sua biodiversità, in cui mangrovie e barriera corallina svolgono un ruolo determinante, è già messa a dura prova dai rifiuti, dalla pesca con la dinamite e dai turisti poco rispettosi.